Quella mattina di tredici anni fa me la ricordo bene. Molto bene!
Dormivo profondamente da meno di quattro ore quando suonò il telefono. E quelli erano telefoni che non si potevano ignorare, con quell'inflessibile trillare delle vecchie campanelle di metallo. Mica le musichette dei telefonini di oggi, che puoi zittire tanto poi vedi chi t'ha cercato e, se vuoi, lo richiami. No, quelli no, dovevi rispondere, soprattutto se suonavano alle otto di mattina.
La voce del maresciallo dall'altra parte dei filo fu peggio di una doccia fredda. Il sonno mi passò di colpo, e cinque minuti dopo ero già sulla mia vecchia Golf, incredulo. Il Maresciallo m'aveva spiegato brevemente quel che era successo, ma non riuscivo a immaginare quel che mi attendeva, non potevo o non volevo credere che fosse tanto grave.
Ma quando posteggiai sotto la Torre del Campano, e vidi, mi fu tutto chiaro: ero rovinato. Restai qualche attimo nella macchina ferma a guardare il disastro. Non riuscivo a pensare a niente, all'urgenza della situazione, alla signora che s'era fatta del male e che era stata già portata all'ospedale.
Certo, mi dispiaceva per lei. Ogni tanto la incontravo, ci salutavamo, era una simpatica vecchietta, gentile, non si lamentava mai, neppure quando giù al locale si faceva tardi e un po' di rumore. E certo per lei il risveglio era stato molto più brusco del mio: il pavimento le era crollato sotto i piedi, e si era ritrovata nel mio ristorante in mezzo a un mucchio di detriti, ferita gravemente. Io son qui, più di dieci anni dopo, a raccontarvela questa storia, mentre lei un mesetto dopo non ce la fece più. E ora, confesso, mi dispiace d'aver pensato così poco a lei quella mattina.
Ma, sapete, ero incredulo, frastornato. Il mio ristorante, la Stanzina, subito dietro alla Torre del Campano, era la mia vita: avevo fatto debiti per metterlo su, era ben avviato e cominciava a darmi qualche soddisfazione. Adesso il locale era franato, distrutto, ridotto a un mucchio di detriti. E a casa avevo una moglie e una bambina piccola.
Finalmente scesi dalla macchina, mi feci riconoscere dal Maresciallo, ma non ricordo molto. Mi parlavano, mi facevano domande, ma io non riuscivo a non pensare che appena poche ore prime avevo chiuso il mio locale, avevo messo a posto, chiuso la cassa, e mentre contavo i soldi avevo anche pensato con soddisfazione che le cose m'andavano bene, la rata mensile e tutte le spese me le pagavo tranquillamente, avevo la mia clientela affezionata. Ora, invece, il locale non c'era più, era distrutto, ridotto a un cumulo di macerie. E io con lui.
Il giorno dopo andai dal mio avvocato. Non so neppure bene cosa mi aspettassi da lui ma, chissà poi perché, m'illudevo che mi tirasse fuori dai guai. Chiedere danni alla proprietà dell'immobile, mi disse, era più o meno inutile, perché anche se li avessi ottenuti ci sarebbero voluti anni. Io invece avevo bisogno di una soluzione subito: "avvocato, io sono rovinato" gli ripetevo. E dopo un po', per farmi aprire bene gli occhi e smettere di sognare d'essere risarcito da chissà quale giustizia, mi spiegò che l'unica cosa che potevo fare era mettermi sul Ponte di Mezzo a chiedere aiuto, a raccontare ai passanti la mia sventura perché qualcuno s'impietosisse e mi facesse un po' d'elemosina.
Quando fui di nuovo per strada avevo il morale sotto le scarpe: mi rendevo conto di non aver niente da fare, non avevo più un lavoro, niente da organizzare per l'apertura serale del locale. Non avevo più un locale ne un lavoro.
Fu a quel punto che mi tornò in mente il Dr. Jazz, un locale di Dusseldorf presso il quale avevo lavato i piatti tanti anni prima, un lavoretto che m'aveva aiutato a uscire da un'altra situazione difficile. Un giorno o l'altro, avevo sognato tante volte all'epoca, avrei aperto un locale tutto mio e l'avrei chiamato Dr. Jazz.
Adesso la mia vita era a pezzi, ma non potevo rassegnarmi. Non potevo chiedere l'elemosina, avevo una moglie, una figlia, e anche la mia dignità, il mio orgoglio! Montai in macchina e iniziai a girare, ma in realtà non sapevo dove andare o cosa fare. Ero rovinato e sapevo di dover reagire, non potevo permettermi di fare sciocchezze e non c'era nessuno che potesse aiutarmi. Era come se mi rimbombasse nella testa una musica triste e cupa, una ballata che mi ricordava quanto può essere dura la vita, cattiva la sorte, inflessibile la sfiga. Eppure quella triste ballata aveva un ritornello simpatico, che tornava sempre lì, al Dr. Jazz.
Mi feci coraggio: andai a trovare il fornitore di birra del mio ex locale. Gli spiegai la situazione, gli raccontai quel che avevo in mente, lui sapeva quanta birra gli avevo venduto e come lavoravo. Mi guardava, mi lasciava parlare, rispondeva a monosillabi, mi studiava per capire se poteva fidarsi della mia disperazione: sapete, quando uno è disperato, è come se camminasse sul filo di una lama, può rovinarsi del tutto o invece mantenere l'equilibrio e trovare la forza per reagire e ricominciare. Ci vuole molto coraggio per investire su di una persona disperata. E lui ne ebbe, mi prestò quindici milioni, coi quali aprii il Dr. Jazz.
Non potrei mai spiegare la soddisfazione che provai anni dopo quando il mio fornitore di birra mi ringraziò: da tempo, e entro i tempi concordati, gli avevo restituito i suoi soldi e anche quei pochi interessi che era giusto pagargli, il mio dr. jazz era avviato ed ero di nuovo in corsa, gli compravo molta birra e dunque lo facevo guadagnare. Ma più di tutto, mi disse, mi ringraziava perché gli avevo dimostrato che nella vita bisogna anche avere fiducia.
Dormivo profondamente da meno di quattro ore quando suonò il telefono. E quelli erano telefoni che non si potevano ignorare, con quell'inflessibile trillare delle vecchie campanelle di metallo. Mica le musichette dei telefonini di oggi, che puoi zittire tanto poi vedi chi t'ha cercato e, se vuoi, lo richiami. No, quelli no, dovevi rispondere, soprattutto se suonavano alle otto di mattina.
La voce del maresciallo dall'altra parte dei filo fu peggio di una doccia fredda. Il sonno mi passò di colpo, e cinque minuti dopo ero già sulla mia vecchia Golf, incredulo. Il Maresciallo m'aveva spiegato brevemente quel che era successo, ma non riuscivo a immaginare quel che mi attendeva, non potevo o non volevo credere che fosse tanto grave.
Ma quando posteggiai sotto la Torre del Campano, e vidi, mi fu tutto chiaro: ero rovinato. Restai qualche attimo nella macchina ferma a guardare il disastro. Non riuscivo a pensare a niente, all'urgenza della situazione, alla signora che s'era fatta del male e che era stata già portata all'ospedale.
Certo, mi dispiaceva per lei. Ogni tanto la incontravo, ci salutavamo, era una simpatica vecchietta, gentile, non si lamentava mai, neppure quando giù al locale si faceva tardi e un po' di rumore. E certo per lei il risveglio era stato molto più brusco del mio: il pavimento le era crollato sotto i piedi, e si era ritrovata nel mio ristorante in mezzo a un mucchio di detriti, ferita gravemente. Io son qui, più di dieci anni dopo, a raccontarvela questa storia, mentre lei un mesetto dopo non ce la fece più. E ora, confesso, mi dispiace d'aver pensato così poco a lei quella mattina.
Ma, sapete, ero incredulo, frastornato. Il mio ristorante, la Stanzina, subito dietro alla Torre del Campano, era la mia vita: avevo fatto debiti per metterlo su, era ben avviato e cominciava a darmi qualche soddisfazione. Adesso il locale era franato, distrutto, ridotto a un mucchio di detriti. E a casa avevo una moglie e una bambina piccola.
Finalmente scesi dalla macchina, mi feci riconoscere dal Maresciallo, ma non ricordo molto. Mi parlavano, mi facevano domande, ma io non riuscivo a non pensare che appena poche ore prime avevo chiuso il mio locale, avevo messo a posto, chiuso la cassa, e mentre contavo i soldi avevo anche pensato con soddisfazione che le cose m'andavano bene, la rata mensile e tutte le spese me le pagavo tranquillamente, avevo la mia clientela affezionata. Ora, invece, il locale non c'era più, era distrutto, ridotto a un cumulo di macerie. E io con lui.
Il giorno dopo andai dal mio avvocato. Non so neppure bene cosa mi aspettassi da lui ma, chissà poi perché, m'illudevo che mi tirasse fuori dai guai. Chiedere danni alla proprietà dell'immobile, mi disse, era più o meno inutile, perché anche se li avessi ottenuti ci sarebbero voluti anni. Io invece avevo bisogno di una soluzione subito: "avvocato, io sono rovinato" gli ripetevo. E dopo un po', per farmi aprire bene gli occhi e smettere di sognare d'essere risarcito da chissà quale giustizia, mi spiegò che l'unica cosa che potevo fare era mettermi sul Ponte di Mezzo a chiedere aiuto, a raccontare ai passanti la mia sventura perché qualcuno s'impietosisse e mi facesse un po' d'elemosina.
Quando fui di nuovo per strada avevo il morale sotto le scarpe: mi rendevo conto di non aver niente da fare, non avevo più un lavoro, niente da organizzare per l'apertura serale del locale. Non avevo più un locale ne un lavoro.
Fu a quel punto che mi tornò in mente il Dr. Jazz, un locale di Dusseldorf presso il quale avevo lavato i piatti tanti anni prima, un lavoretto che m'aveva aiutato a uscire da un'altra situazione difficile. Un giorno o l'altro, avevo sognato tante volte all'epoca, avrei aperto un locale tutto mio e l'avrei chiamato Dr. Jazz.
Adesso la mia vita era a pezzi, ma non potevo rassegnarmi. Non potevo chiedere l'elemosina, avevo una moglie, una figlia, e anche la mia dignità, il mio orgoglio! Montai in macchina e iniziai a girare, ma in realtà non sapevo dove andare o cosa fare. Ero rovinato e sapevo di dover reagire, non potevo permettermi di fare sciocchezze e non c'era nessuno che potesse aiutarmi. Era come se mi rimbombasse nella testa una musica triste e cupa, una ballata che mi ricordava quanto può essere dura la vita, cattiva la sorte, inflessibile la sfiga. Eppure quella triste ballata aveva un ritornello simpatico, che tornava sempre lì, al Dr. Jazz.
Mi feci coraggio: andai a trovare il fornitore di birra del mio ex locale. Gli spiegai la situazione, gli raccontai quel che avevo in mente, lui sapeva quanta birra gli avevo venduto e come lavoravo. Mi guardava, mi lasciava parlare, rispondeva a monosillabi, mi studiava per capire se poteva fidarsi della mia disperazione: sapete, quando uno è disperato, è come se camminasse sul filo di una lama, può rovinarsi del tutto o invece mantenere l'equilibrio e trovare la forza per reagire e ricominciare. Ci vuole molto coraggio per investire su di una persona disperata. E lui ne ebbe, mi prestò quindici milioni, coi quali aprii il Dr. Jazz.
Non potrei mai spiegare la soddisfazione che provai anni dopo quando il mio fornitore di birra mi ringraziò: da tempo, e entro i tempi concordati, gli avevo restituito i suoi soldi e anche quei pochi interessi che era giusto pagargli, il mio dr. jazz era avviato ed ero di nuovo in corsa, gli compravo molta birra e dunque lo facevo guadagnare. Ma più di tutto, mi disse, mi ringraziava perché gli avevo dimostrato che nella vita bisogna anche avere fiducia.